Nell’ultima settimana sono inciampata in diversi articoli che tentavano riflessioni sull’epoca che abitiamo e, in particolare, su questo presente lacerato e lacerante, frammentato e disperante, confuso, iniquo (non che le altre epoche fossero eque, ma diciamo che da un certo punto della storia in poi, l'uguaglianza tra gli esseri umani è diventata un valore fondante - almeno in teoria - della “nostra” cultura).
Un presente che guardiamo attraverso gli schermi, diventati estensioni dei nostri occhi, strumento di percezione di una post-realtà filtrata, mentre proviamo a interpretarlo, a spiegarlo, a sopravvivergli, a comprenderlo usando strumenti del secolo scorso; categorie del pensiero che appartengono al precedente millennio, che non trovano corrispondenza nel mondo odierno, che non s’aggrappano alla diversità ineluttabile dell’oggi (non so dire se questo mondo sia migliore o peggiore del precedente, non mi compete farlo e non serve neppure). La domanda di base è: di cosa abbiamo bisogno per abitarlo, questo presente? Di comprenderne le dinamiche e le traiettorie, mi verrebbe da dire, innanzitutto. Del resto, come possiamo anche solo immaginare un qualsivoglia futuro, se stentiamo a distinguere i contorni del nostro tempo?
1. Tra il sé e il tutto
La mia impressione, oggi, è che se ci guardiamo intorno, ritraiamo subito lo sguardo, lo distogliamo, lo volgiamo altrove, soprattutto dentro, perché l’esterno ci sembra così assurdo e ingovernabile e torrido, che preferiamo concentrarci su ciò che possiamo gestire, forse, o su cui possiamo agire, ovvero noi stessi. Non è forse questo che anni di psicoterapia e diverse migliaia di euro sottratte a già precarie finanze ci hanno insegnato? Non puoi cambiare gli altri, puoi cambiare te stess* (e comunque sempre relativamente, entro certi limiti). Il pezzo che ci sfugge e, duole dirlo, continua a sfuggirci, è che noi non siamo mai solo noi stess* in quanti tali, noi siamo ciò che siamo anche, sempre, in relazione al contesto (complesso e articolato) in cui nasciamo, cresciamo e viviamo. Esistiamo a cavallo tra l’interno e l’esterno, tra il sé e il tutto, e questo talvolta è paradossale, ambivalente, detestabile, salvifico. Dipende. Quel che è certo, è che non possiamo sperare di “salvarci”, di provare benessere, se ogni cosa intorno a noi si disfa, sclerotizza, distrugge.
2. Tutto è troppo
E infatti noi ci guardiamo dentro e ci accorgiamo che, nonostante l’impegno, gli sforzi profusi, la dedizione, la passione, l’abnegazione, la volontà, arranchiamo. Ciascuno sulla propria zattera, remiamo inquieti nel mare in tempesta, dritti nell’apocalisse, letterale e morale, umana e climatica, in una crisi di significati che tentiamo in ogni modo di eludere, fallendo. Un tuffo in piscina, un concerto, un viaggio last minute, ci proviamo davvero, ci proviamo lo giuro, ma tutto è troppo.
Tutto è troppo, e allora guardiamo un tassello, mai l’immagine completa, è una strategia di sopravvivenza che di strategico ha ben poco, una forma di indifferenza selettiva, la capisco, ci capisco, poverannoi, lamentiamoci insieme, e dopo anni spesi a normalizzare ogni cosa (sebbene “normale” sia una parola abietta che non sappiamo più dire senza usare le virgolette) ops, eccoci qui, nell’era dell’ipernormalizzazione. Una nuova parola che serve a dirci che ci ostiniamo a credere in una narrazione ufficiale del mondo, pur sapendo che è falsa, artificiale, insostenibile, nell’incapacità strutturale che abbiamo di immaginare un’alternativa plausibile.
3. La scroll society
Da anni, del resto, la vita collettiva si è ridotta a uno scroll infinito, capace di determinare sogni, ambizioni, paure, risentimenti, pregiudizi, orientamenti politici, sensibilità e insensibilità di masse di persone, bersagliate da un flusso ininterrotto di contenuti: una ricetta veg, un outfit perfetto, un genocidio, un parco giochi, una sentenza ingiusta, una ragazzina ammazzata, una catastrofe climatica, una strage, un nostro amico a Mykonos, un operaio morto mentre lavorava, una dieta miracolosa, uno sketch di stand up comedy, un multimiliardario che affitta una città bellissima mentre la città bellissima sprofonda, esercizi per allenarsi, il Mediterraneo in fiamme, un incidente aereo, le bombe, i droni, il botox, le vacanze in barca, un libro di Cruciani, la parata del gay pride, un parrucchiere che taglia i capelli, i serpenti nel mare ibizenco, un bambino con gli arti amputati, una madre disperata, il nuovo trend per avere delle unghie chic, Giorgia Meloni che fa le faccette, una manifestazione repressa dalle Forze dell’Ordine, utili consigli per combattere la cellulite.
In pochi minuti riusciamo a provare ogni cosa: dolore, invidia, disgusto, delusione, curiosità, aspirazione, paura, rabbia; tutto insieme, tutto mischiato. E naturalmente molta, moltissima ansia. In questa smisurata dilatazione dei bisogni, dei consumi, delle esigenze; di fronte a questo sterminato banchetto di emozioni a cavallo tra realtà e finzione, diventiamo al contempo voraci e inappetenti, insaziabili e satolli, estetizzati e anestetizzati.
4. La mercificazione universale
E allora torniamo alla domanda iniziale: cosa è l’epoca che stiamo vivendo? Quale mondo stiamo davvero abitando? Cosa ci serve per starci dentro? E soprattutto, com’è diventato il mondo?
Un luogo in cui tutto, qualsiasi cosa, è merce. Noi stessi siamo merce. Oltre che target, utenti, potenziali clienti, iscritti e venditori. Ogni nostra inclinazione, interesse, timore, insicurezza, intimo desiderio e crepa dell’essere diventa potenziale profitto per qualcuno. Ogni valore è mercificato. Ogni diritto. Ogni azione è misurabile in termini di posizionamento e ritorno, economico e di immagine. Ogni iniziativa apparentemente benefica è solo “washing” di qualcosa, un travestimento che il mercato adotta, un perenne carnevale mediatico: green washing, pink washing, rainbow washing. Siamo di fronte alla mercificazione universale, che ci ha resi tutti consumatori indefessi e scellerati. Capirlo mi sembra importante perché, se mai decideremo di boicottare qualcosa o qualcuno, le nostre scelte di consumo avranno un ruolo centrale.
5. Collettivamente soli
Viviamo in un sistema di promesse e aspettative puntualmente disattese, di esibizione e di privilegi, di disuguaglianze strutturali, insanabili, profondissime; e siamo sempre più scollati dalle nostre funzioni umane di base: la relazione, l’affettività, la sessualità, la socialità. Siamo individui che non riescono più a coagularsi in collettività.
Un ragazzo che ho conosciuto qualche tempo fa mi ha detto di essere stato a una manifestazione che era piena di cartelloni, individuali, portati da un solo manifestante, ma c’erano pochissimi striscioni, quelli che si portano in gruppo. L’ho trovata un’immagine significativa, diciamo così, del nostro tempo.
Viviamo in un mondo in cui tutto è faticoso, persino per noi che siamo pieni di comfort, noi che non facciamo una vita né industriale, né contadina; noi che non dobbiamo lasciare la casa in venti minuti perché qualcuno sta per bombardarla. E allora questa fatica da dove può derivare, se non dal profondo senso di solitudine che ci permea, che ci fa sentire sempre più impotenti, sempre più irrilevanti, più frustrati, più colpevoli o vittime a seconda dei momenti?
Viviamo in un mondo in cui le democrazie sono in crisi irreversibile, così come la salute mentale degli individui (e che esista un legame tra le due cose è un’intuizione affascinante, meno peregrina di quanto appaia). Un mondo senza collettività. Un mondo senza politica, senza valori. Un mondo senza speranza, che ha perso completamente la capacità di immaginarsi diverso da quello che è. Di porsi in discussione. Di avere il coraggio di cambiare. Di darsi un significato differente dal capitale, e un obiettivo diverso dal profitto sfrenato a vantaggio di pochi, e a danno di tutti gli altri.
6. L’economia del sé
E allora mentre ogni cosa va a puttane (sempre senza offesa per le puttane), ci concentriamo al millesimo sul nostro automiglioramento, sulle nostre esperienze personali, la nostra formazione, le nostre case, il nostro guardaroba, la nostra alimentazione, i nostri figli, la nostra carriera, il nostro corpo.
Il mantra è: investire in se stessi, credere in se stessi, amare se stessi, migliorare se stessi, come se “se stessi” fosse un agglomerato di organi e tessuti scollato dal resto. Come se ciascuno di noi non fosse altro che un nucleo indipendente di ferite individuali e meschinità per cui chiedere assoluzione (a chi, poi, se manco crediamo in un Dio, e per fortuna aggiungerei).
7. Una rivoluzione di senso
Del resto, se ci provi, anche timidamente, a immaginare valori nuovi, una società diversa, una risposta altra a questo insostenibile tardo-capitalismo che si nutre dello sfruttamento spietato di persone, animali, risorse e territori, ti senti una persona sciocca. Un’ingenua, un’illusa, una sempliciotta, un’utopista. Accidenti quanto è funzionale il cinismo, al mercato. Quanto è necessario essere incarogniti, soli, disgregati, impauriti, gli uni contro gli altri a scannarsi per le briciole, perché nulla cambi mai. Essere innocui insomma, che se no è volgare cantavano gli Afterhours, quando parlavano di rivoluzioni che non fanno male.
E invece, forse, una rivoluzione di senso, è ormai necessaria. Forse dovremmo, da un lato, fotografare la situazione attuale, con lenti contemporanee, di questo millennio; e poi dovremmo provare quanto meno a ripensarci, chiedendoci se ci stia effettivamente bene vivere in un mondo in cui le persone valgono in base ai soldi che hanno; un mondo in cui nessuno difende i più deboli e vince sempre il più forte, o meglio il più prepotente; un mondo in cui è quasi impossibile emanciparsi dalla propria condizione di nascita, nonostante promesse di segno opposto, perché qualunque leva dell’ascensore sociale è bloccata (e allora diciamolo che le classi sociali esistono, e che esistono le caste, e che non è vero che “se vuoi puoi”); un mondo in cui i diritti diventano privilegi; un mondo in cui non consideriamo più nemmeno il valore teorico della giustizia e dell’uguaglianza; un mondo in cui dovremmo ripensare il lavoro; un mondo in cui dovremmo ripensare la scuola; un mondo in cui dovremmo ripensare il consumo, la mobilità, la pretesa che abbiamo di poter fruire di tutto quando lo desideriamo, immediatamente: luoghi, oggetti, risorse, persone, esseri viventi; un mondo in cui dovremmo ripensare le relazioni; un mondo in cui dovremmo recuperare la consapevolezza di essere singolari (certo, ognuno di noi è unico, d’accordo) ma anche, e soprattutto, plurali.
8. Psicoterapia unica via
Insomma, stiamo mediamente male. E quelli che dichiarano di stare bene, in questo mondo, a queste condizioni, dovrebbero farsi vedere da uno bravo perché stanno peggio degli altri, probabilmente, e lo negano. Certo, ci sono giorni buoni talvolta, per fortuna o per caso, ma di base stiamo piuttosto di merda. Ce lo dicono la cronaca, la politica, l’informazione, la disinformazione, la gente che guida per strada, i vicini di casa che urlano, i colleghi in burn-out, noi stessi che al mattino riusciamo a dire “vaffanculo”, a volte, persino prima di “buongiorno”. Lo dicono i dati sui suicidi, sui disturbi del comportamento alimentare, sugli atti di autolesionismo, sulla salute mentale. Ci dicono che c’è un diffuso e generale malessere che percorre le fondamenta della nostra società. Ci dicono che questa società è malata e io mi chiedo: cosa stiamo facendo per curarla? Qual è la medicina?
Sappiamo che la psicoterapia è diventata la nuova panacea dei mali del mondo, la nuova illusione di massa, almeno di quel pezzo della massa che consideriamo più “evoluto”. Eppure persino la psicoterapia è l’ennesima forma di introflessione, di masturbazione egoriferita: fai pace con la mamma, fai pace col papà, abbraccia il tuo sé bambino, vedrai che starai meglio, vedrai che tutto si risolverà. Spoiler: no. Cioè sì, ma solo un po’. Quando avremo finito di farci le nostre sacrosante pugnette personali, proviamo a ricordarci che c’è anche un mondo lì fuori, e che aivoglia a curare il proprio sé, quando il terreno, l’aria e l’acqua da cui traiamo nutrimento sono contaminati e tossici. Curo le foglie, saranno forti, se riesco ad ignorare che gli alberi son morti.
Persino la psicoterapia, insomma, è diventata un mercato profittevole, qualcosa su cui attivare promozioni commerciali, una seduta in omaggio col codice sconto, se compri un preciso detergente intimo in co-marketing. Stiamo lucrando su ogni cosa. E su nulla si lucra bene come sul dolore, individuale e collettivo, cronico e sociale. Non esiste una singola, neppure piccolissima, porzione dell’umano, che non venga cannibalizzata dal mercato, piegata e coartata agli interessi degli oligarchi del mondo.
9. E quindi?
Da dove si può partire per ripensarsi?
Anche se è tardi, anche se forse è inutile?
Ecco, se c’è una cosa che ho imparato nella mia modesta esperienza personale, è che quando tutto va male (innanzitutto non è vero, potrebbe sempre andare peggio, e questo è giusto saperlo), per cambiare non serve cambiare ogni cosa.
Non serve partire a bomba, tutto insieme. Anzi, fare così, è il modo migliore per scoraggiarsi e mollare. Basta scegliere un punto, un tema, un pezzettino. È come quando metti in ordine casa, o il guardaroba. Non puoi pretendere di fare tutto in un solo giro, magari. Non ne hai il tempo, né le energie, e se aspetti di averle per iniziare, non inizi mai.
Invece a volte basta partire da un cassetto e riordinare quello. Poi magari se ne fa un altro. Poi ci si ferma perché è ora di cena. Ma due cassetti in ordine sono meglio di zero cassetti in ordine. E il giorno dopo si continua. Perché quando inizi col decluttering, scopri che fa bene. E via così.
10. Fare decluttering
Dunque ho pensato che, se vi va (ma anche se non vi va io lo faccio lo stesso), proviamo a riordinare le idee dentro questi grandi cassetti. Io li apro uno per volta e vi dico cosa ci vedo dentro, e voi mi dite cosa ci vedete voi. Facciamo un cassetto alla settimana, o al mese. Li leggiamo così, sotto l’ombrellone per chi potrà permettersi il mare. Su una sdraio in montagna, per chi potrà permettersi la montagna. In aeroporto quando i vostri voli saranno in ritardo. In autostrada, quando saremo incolonnati per ore. Sul cesso. Sul divano. Dove volete. Ma proviamo. Partiamo da, chessò: “Il lavoro che vorrei”, “La scuola che vorrei”, “Le città che vorrei”, “Il Paese che vorrei”, “Il Pianeta che vorrei”. E facciamolo tirando fuori tutte le banalità, le ovvietà, le utopie, quelle cose così giuste che non abbiamo più il coraggio di dirle, perché non vogliamo sembrare scemi. Tutte quelle robe talmente legittime che definiamo retoriche, o irrealistiche. Tiriamole fuori, perché prima o poi, a forza di remare ciascuno sulla propria zattera nel mare in tempesta, dritti nell’apocalisse, finiremo per annegare, assiderati. Come Jack Dawson.
Proviamoci.
Così, per scoprire l’effetto che fa.