Correva l’anno 2002 quando, per la prima volta, ascoltai gli Afterhours dal vivo. Successe per caso, all'Heineken Jammin Festival di Imola, dove ero andata, partendo da Taranto, per sentire i Red Hot Chili Peppers (Californication era uscito tre anni prima, nel 1999 e, sebbene il mio amore per loro iniziasse a scemare, era stato abbastanza intenso da meritare quel concerto).
Avevo 16 anni, la bandana in testa, il pantalone di Dimensione Danza e degli occhiali da sole fucsia. Nel complesso, un outfit di dubbio gusto. Mentre attendevo l’esibizione di Kiedis, Flea, Frusciante e del batterista di cui non rammento il nome, molti altri gruppi, tra cui i Muse e per l’appunto gli Afterhours, si esibirono sul palco. “Sento di avere una milza nel cervello” è tutto ciò che recepii in quell’occasione.
Due anni più tardi, nel 2004, sul finire del liceo, il mio amico Stefano, compagno di classe e bassista, mi passò Siam tre piccoli porcellin (masterizzato, of course) e per me fu una rivelazione, un’epifania, una devozione immediata e assoluta, come forse solo da giovani può accadere. Di lì a pochi mesi, una collega di università mi regalò un cd con tutta la discografia degli After, in mp3, così che io potessi andare in fissa definitiva. Durante l’estate, invece, un amico mi aveva regalato un librino scritto da Manuel Agnelli e pubblicato da Mondadori che s’intitolava Il meraviglioso tubetto. Non posso spiegare quanto lo amai.
Va detto che ai tempi, comunque, succedeva così. L’universo culturale e la musica in particolare erano un fatto di relazione: ciò che scoprivi dipendeva anche dai gusti delle persone che frequentavi, che ti suggerivano gli album, che ti passavano i supporti fisici con dentro la musica, che ti trascinavano ai concerti, che d’altra parte costavano - come ogni cosa - la metà di oggi. L’algoritmo, all’inizio del corrente millennio, era una questione umana, di gusto, di affinità che si costruivano insieme, di significati condivisi. Agli artisti ci arrivavi perché erano gli amici appassionati, gli amanti, i fratelli, le cugine, i genitori in certi casi, a condurti lì (e lasciarsi condurre, diciamolo una buona volta, era anche una figata), non una sequenza di 0 e di 1 (sì, sono luddista, ma ne parleremo in altra sede).
Nel 2005 uscì Ballate per piccole iene, l’album di cui oggi si celebra il ventennale. A quel punto gli Afterhours avevano già una lunga storia alle spalle. Il loro album del 1997 - Hai paura del buio? - era considerato un capolavoro, il “Nevermind italiano”, una pietra miliare nel panorama del rock nostrano… insomma, si trattava di una band “di nicchia” (non erano i Negramaro che imperversavano in radio con la colonna sonora ufficiale dell’Estate 2005), erano “indipendenti” certo, ma non erano esattamente degli esordienti. Fatto sta che quell’anno ci fu un’ondata di nuovi fan e soprattutto di nuove fan invasate, tra cui la sottoscritta che, pur non nascendo come “piccola iena”, iniziò a seguirli fisicamente proprio grazie al tour di quell’album.
Un album che amo, certo, ma i miei pezzi preferiti sono da sempre altrove. Gli appunti dell’università erano disseminati di citazioni, frasi come “Il risveglio dal sogno forse uccide, mai tradisce”. “Non c’è torto o ragione, è il naturale processo di eliminazione”, “Se c’è una cosa che è immorale, è la banalità” (del resto, mia figlia, nata nel 2021, si chiama Bianca perché non volevo fosse “la mia più bella cosa mai successa”... quanto siamo cliché, noi bimbe di Manuel Agnelli).
Sia chiaro però: non era solo subbuglio ormonale dettato dalla giovinezza. Era proprio che qualcuno riusciva a intercettare e dare forma a un preciso modo di sentire: cinico e amaro, lucido e lurido, disincantato, alienato, feroce, poetico. I testi di Agnelli erano pieni di pelle, di sangue, di saliva, di fluidi che colavano, di resti di seme, di orgasmi rivoluzionari capaci di placare ogni reazione. Ingoiare, assaggiare, scoprire. Cercarsi e ritrovarsi, anche nella rabbia, nella meschinità, nei fallimenti. E liberarsi. Non so se si possa dire senza risultare greve, ma quelle canzoni ci scopavano il cervello. Erano carnali. L’ascolto era una faccenda fisica. I live erano la dimensione ideale per gli Afterhours perché erano un rituale collettivo in cui portavamo i corpi e sentivamo tutto, con tutto il corpo.
È stato un sogno erotico Manuel Agnelli? Sì, certo che sì. Quando non era così in forma, quando non aveva il physique du role, quando le mie amiche mi dicevano: “È brutto”, e io invece ci uscivo di testa (un altro sogno erotico in quell’epoca, per me e per molte, era Marco Travaglio, facciamo coming out).
Ma se fosse stato solo questo, gli Afterhours avrebbero attirato un nugolo di ragazzette arrapate e poco più. Invece no. Nei pezzi degli Afterhours c’era la fotografia critica di un’epoca, quella in cui si erano formate la Generazione X e i primi millennial. Ragazzi e ragazze cresciuti nell’Italia berlusconiana, liberista, globalista, televisiva, uniformata e conformante, tra dipendenze e apparenze. Generazioni che di riferimenti culturali, di strumenti di critica collettiva, ne avevano avuti davvero pochi. E di repressione, invece, ne avevano subita molta, durissima (chissà se i Gen Z sanno cosa fu il G8). E la musica non è forse anche un mezzo per reagire? L’arte, più in generale, non è quel dispositivo che ci consente di creare un senso condiviso delle cose, disturbandoci e ispirandoci, spingendoci a superare la nostra miserabile, benché ipertrofica, soggettività? Sui giovani d’oggi ci scatarro su, Non si esce vivi dagli anni 80, Musicista contabile, per citarne alcuni ancora incredibilmente attuali, persino profetici. L’abbiamo capito o no, oggi, che “Milano non è la verità?”
Dicevamo: nel 2005 partecipai al primo concerto a Bologna, all’Estragon, con una fantastica canotta nera di Tezenis, sulla quale avevo scritto con l’uniposca argentata: “La chiave della felicità è la disobbedienza in sé a quello che non c’è”. Delle ragazze, sotto il palco, mi chiesero dove l’avessi comprata. Merchandise autoprodotto, baby. Pezzo unico. Chissà dov’è finita.
Quella sera, dopo il concerto, scassai la minchia a tutti i componenti della band affinché convincessero Manuel a palesarsi, perché avevo un biglietto per lui (ero imbarazzante, lo so). Quando fu evidente che Il Sommo non sarebbe uscito, consegnai la triplice copia del pizzino (che ovviamente includeva il mio numero di telefono, hai visto mai) agli altri componenti della formazione (il più cuore dei quali fu Enrico Gabrielli). A un certo punto Manuel decise di uscire: una fan storica voleva farsi autografare il VINILE di uno dei loro primi album. Non poteva ignorare lei, dunque si sciroppò anche noi. Riuscii a dirgli nell’orecchio (intanto all’Estragon era partito il dj set): “Ho dato agli altri una cosa per te!”, lui si avvicinò e mi disse: “Coszèèèè” (si riproduce è vivo in me, coszèèèè). Quell’accento milanese, repellente in sé, rovesciato nel mio padiglione auricolare, è un ricordo che custodisco con cura. Uno dei momenti più eccitanti della mia gioventù, ma forse anche della mia vita adulta. Per la cronaca, gli risposi: “Un bigliettino molto adolescenziale” e lui passò legittimamente oltre, ma io in effetti di anni ne avevo 19 e, me ne rendo conto solo adesso, ci credevo troppissimo.
Da lì è venuto tutto il resto. Pochi mesi dopo, andai a sentirli alla Flog, a Firenze, con Frecciagrossa, senza impegnarmi in acrobazie da groupie.
Nel 2006 feci tre tappe: Conversano con l’amico che mi aveva regalato il libretto; Bologna, sempre con le amiche dell’uni; Ceglie Messapica, a fine agosto, con il mio amico Peppe e la sua fidanzata dell’epoca, che si chiamava Ilaria e che fino a quel momento mi aveva detestata (non so perché, ma avrà avuto validissime ragioni) e invece, grazie alla passione condivisa per Manuel, diventammo amiche (la musica anche questo fa: crea amicizie, assonanze, legami). Con noi c’era un’altra amica, anche lei Ilaria, che mi donò il concerto degli After più divertente, in assoluto, tra tutti quelli che ho fatto. Flirtammo coi tipi della security, ci fecero oltrepassare le transenne, vedemmo tutto il concerto letteralmente a due passi dalla band e, a un certo punto, matte come due mine, ci lanciammo sotto il palco per tentare di infiltrarci nel backstage. I tipi della security ci rincorsero e ci portarono via. Non ricordo se limonammo con loro, o meno. Se prima o dopo. Non che sia rilevante.
Nel 2007, un altro live, sempre a Bologna, sempre con le amiche dell’uni e con l’amico che mi aveva regalato il libro, promosso nel frattempo a grande amore di quella stagione della vita.
Nel 2008, sempre a Bologna, sempre con lui. Eravamo di passaggio, ci provammo, i biglietti erano sold out. Io non ricordo esattamente come sia stato possibile, ma riuscimmo (lui riuscì) a convincere Giorgio Prette (💙) a farci entrare lo stesso. “Siete in lista Afterhours” ci disse, sfinito. Avevo rimosso dalla memoria questo aneddoto, e non lo avrei mai ripescato, se non fossi tornata a vederli martedì scorso, 8 luglio 2025, a Milano, chiedendomi poi a che quota fossi, quante volte li avessi già visti, dove, con chi.
Nel 2009, andai a sentirli a Gallipoli, ad agosto, in una serata in cui c’era anche Morgan, piena di tutta la malinconia dell’estate che finisce, come tutte le cose che finiscono, come tutti i grandi amori delle stagioni della vita.
Nel 2010 li vidi a Milano, al Teatro Smeraldo, che sorgeva dove oggi c’è Eataly.
Una sera, in quegli anni ormai milanesi, mi ritrovai alla festa di un noto magazine musicale, e Manuel era a due passi da me. Avrei potuto avvicinarmi, dirgli qualcosa, rendere onore alla 19enne convintissima che gli avrebbe lanciato dietro le mutande, la vulva, le ovaie e le tube. E invece non feci nulla. Non sapevo cosa dirgli.
Ehi, ciao, scusa, niente, ti amo.
L’ultimo live, nel 2015, Io so chi sono, sempre a Teatro, a Roma.
Infine, martedì scorso, a Milano.
Erano dieci anni che non li vedevo.
Dieci anni, cazzo. E sono a quota dodici live.
Quando a gennaio ho visto un post su Instagram che mi informava del tour, ho preso immediatamente il biglietto. Uno solo. Ci vado da sola. Non me ne frega un cazzo, ho pensato. E per mesi ho desiderato la liturgia collettiva che sapevo avrei trovato. E per mesi ho desiderato essere nella mischia, schiacciata tra gli altri corpi, regredire allo stadio tardo adolescenziale, perdere serenamente la dignità, urlare, sbracciarmi e abbracciarmi nella calca, mentre maledico il modo in cui sono fatta, il mio modo di morire sana e salva dove m’attacco, il mio modo vigliacco di restare sperando che ci sia quello che non c’è. Per mesi ho desiderato cantare a squarciagola: SONO SANO COSÌ? È COSÌ CHE È ESSERE SANI? SONO SANO COSÌ? Un verso che a quasi 40 anni, lo garantisco, assume una sfumatura del tutto differente. Perché il punto, diciamolo, è anche qui: questo tour non è un’operazione nostalgia. Questo tour ha un’energia potente, attuale, e ce l’ha ancora, a distanza di decenni.
Alla fine la serata è andata molto bene, mi sono divertita, la rifarei domani (ma sotto il palco cazzo, sotto il palco). Sono stata in compagnia di persone che condividono l’afflato mistico e sensuale per Manuel. Ho riso. Ho cantato. Lievemente pogato. Ho amato. Mi sono sentita parte di qualcosa, come non mi succedeva da tempo. È stato bellissimo. Non mi sono ripresa i miei vent’anni, perché quelli esistono solo a vent’anni, ma mi sono ricordata che possono esserci sollievo, leggerezza, turbamento e libertà pure a 40. Bisogna solo imparare a procurarseli, ogni tanto. A concederseli.
Note conclusive:
Dopo settimane in cui mi avete riempita di fotografie e video delle altre tappe, creando hype, caricando a mille le mie aspettative con immagini di un tonicissimo Manuel a torso nudo, o almeno con gilet e bicipiti ben in evidenza, ecco devo informarvi del fatto che (alert! Commento da mortedicazzo) noi ce lo siamo beccate vestito con la camicia chiusa fino al collo.
Era afono, lo ha dichiarato, colpa delle temperature scese, alla faccia della crisi climatica che non esiste, quindi abbiamo di fatto cantato noi, un gigantesco karaoke, ma insomma per piacere possiamo rifarlo presto, con voce, e possibilmente in un luogo con un’acustica migliore del Carroponte?
A un certo punto è passata nella folla, proprio davanti a noi, la figlia di Agnelli, Emma, che aveva aperto il concerto, con una piccola cordata di amici e ho percepito il suo inevitabile disprezzo: cosa siamo ai suoi occhi, se non una massa informe di vecchi sudati, in adorazione per quel boomer di suo padre? La cosa, lo ammetto, mi ha fatta sorridere.
Sono tornata a casa pensando che quando un gruppo riesce a significare tanto, per così tante persone, a distanza di decenni; quando riesce ancora a commuoverle, divertirle, coinvolgerle, aggregarle, produrre impeti di lussuria e ribadire quanto i corpi servano a vivere, sentire, dissentire, protestare, fare pressioni politiche, liberare e liberarsi, ecco, secondo me quel gruppo ha ancora molto da dire. E noi siamo qui ad ascoltare. Adoranti e imbarazzanti, come sempre.
Un’amica che aveva visto il concerto a Roma la sera prima, mi aveva scritto entusiasta, proprio quella mattina. “Che gioia sentirti così!” le avevo detto e lei mi aveva risposto “La musica ci salva sempre”.
Già.
La musica ci salva sempre.
Ciao After, alla prossima.
Vi si vuole bene.
Grandissimi Afterhours e grandissimo Manuel (Quello che non c'è è il mio loro preferito). Lo ascolti il suo podcast su Radio 24? Immagino di sì, ultimamente ha fatto una serie di puntate sui produttori storici della musica pop, è bravo pure a fare radio!
Non esattamente nelle mie corde, loro, ma assoluti top player. Direi i Pearl Jam de noartri. Ammirevole groupie di zio.