Per ragioni che non sto a spiegare, ho aperto vecchie scatole di fotografie di famiglia. Non quelle della mia infanzia, che conosco a memoria, ma quelle dell’infanzia dei miei genitori. Quelle in cui loro sono bambini, poi ragazzi, poi giovani adulti, e fratelli, sorelle, cugini, amici, e poi innamorati, fidanzati, sposi, mamma e papà.
Ci sono i nonni, miei e loro; gli zii, miei e loro. Ci sono un sacco di affetti che non ci sono più. Altri di cui ho sentito tanto parlare, ma che non ho mai conosciuto. Altri ancora di cui non ho chiesto abbastanza e ora è tardi, sono storie vecchie, nessuno sa più raccontarle. Ci sono persone che non sento mai e che non vedo più, anche se abbiamo dormito cento volte sotto lo stesso tetto. E altre di cui ho memoria, anche se la memoria inizia a diventare vertigine.
Ci sono tutti questi “grandi”, tutti questi adulti, che mi sembravano così distanti quando ero convinta che io adulta non sarei mai stata, quando a esser precisi nemmeno ci pensavo che l’adultità sarebbe arrivata, perché non esisteva altro che l’infanzia, e poi altro che la gioventù, che ci scorreva impetuosa nelle vene, che ci percorreva in ogni cellula, in ogni fibra, in ogni nervo, e ci spingeva fino all’alba e oltre, facendo tutto, facendo niente, mentre testimoniavamo il sorgere di un nuovo giorno ridendo, parlando, discutendo, fumando, giocando a scopone, tuffandoci in mare, scopando o sognando, senza sapere che sogni fossero, e la vecchiaia neppure esisteva, non c’apparteneva, i “grandi” erano una questione a parte, erano persone altre, così gli anziani, figure statiche, nate adulte, non divenute, perché a quel divenire noi non avevamo assistito, in quel divenire non c’eravamo stati. E così loro erano, nella mia - forse nostra - percezione genitori da sempre, nonni da sempre, coi baffi o le meches, calvi o canuti, sani o malati, coi loro problemi certo, che sapevamo appena, che non ci scalfivano, che ci travolgevano, come quando qualcuno poi s’ammalava, ogni tanto spariva, a volte moriva, e si soffriva, insieme; gli adulti piangevano, attenzione, erano fragili pure loro, avevano paura, erano smarriti, talvolta soli. Succedeva così, in quel periodo in cui tutto mutava eppure tutto appariva immutabile, in cui tutto doveva e poteva accadere, almeno in teoria, almeno in potenza, e anche se non c’erano le certezze, c’erano i punti fermi, quelli sì, la suggestione che il tempo fosse nostro, che il resto capitasse altrove.
Ci sono loro, gli adulti, in quelle foto. Quando erano giovani, più di noi oggi, che giovanissimi non siamo mica. Ci sono pavimenti meravigliosi in saloni di antica ampiezza, automobili d’epoca, scooter, tre ruote, motociclette; c’è il boom economico e c’è il dopoguerra; ci sono uomini ben vestiti in bianco e nero, oppure in canottiera con le fiasche di vino in campagna; e ragazzini coi calzoni corti, in ghingheri per i sacramenti; ci sono foto di classe in cui erano tutti maschi, o tutte femmine; ci sono donne con lunghissimi capelli raccolti in acconciature cinematografiche; pelli tese e bianche come la luna; occhi scuri, profondi, malinconici oserei dire; ci sono i figli, i genitori nostri, quand’erano vestiti secondo la moda degli Anni Settanta, asciutti e stilosi, che facevano gite in montagna, o sui laghi, che fumavano a tavola, che posavano in spiaggia, abbracciati, stretti, divertiti almeno in apparenza, come se si volessero bene, anche quelli che a un certo punto non si sono parlati più. Ci sono volti riconoscibili, e altri irriconoscibili, e altri mai conosciuti. C’è lo sconcerto di scoprire che essi tutti sono stati altro, rispetto al ruolo in cui noi li abbiamo conosciuti. La prova evidente che anche loro, tutti loro, sono stati come noi. Ed è un peccato, forse, averlo capito così tardi, che eravamo più simili di quanto pensassimo. Che c’è stato un periodo in cui tutti hanno avuto chiome fluenti, sguardi vivaci, frivolezze, timidezze, spigoli e ideali, barbe incolte e addomi piatti, presunzioni e coraggio. C’è quello zio bello, col sorriso sincero, lo sguardo mite, quello zio che non si sa perché un giorno s’è tolto la vita. C’è quello che ha fatto un mestiere che non ha scelto. C’è quello che è sempre stato introverso, quello buffone, il grande lavoratore, l’affrancafastidi, quello che ha fatto i soldi, quello dell’Italsider, quello dell’Arsenale. E poi ci sono loro, le nonne, quando erano giovani, coi vestiti lunghi sotto al ginocchio, le labbra sottili, le trecce, i fermagli, talvolta persino un filo di perle. Quanto vorrei parlarci, proprio con loro, con Maria e con Nicoletta.
Ci penso spesso, ci penso soprattutto da quando i miei sono diventati nonni, e io genitore, e da allora ho la percezione chiara di quanto siano stati pure figli. Ci penso da quando i miei hanno iniziato a sembrarmi un po’ più bambini. Quanto vorrei saperla la vita che hanno vissuto, le nonne. Da cosa sono fuggite, in cosa si sono rifugiate, cosa le ha rese felici, cosa le ha fatte tribolare, con chi hanno condiviso i dolori che hanno avuto, quanto è stato difficile, quando è sembrato facile.
Essere la maggiore di quattro fratelli, unica femmina di una famiglia contadina, con la quinta elementare, com’è stato? Sposarsi tardi, dopo la guerra, mica voleva restare prematuramente vedova, nonna Maria. Com’è stato crescere quei tre fratelli, lavorare come sarta, sposare un uomo del paese vicino, trasferirsi di pochi chilometri quando le distanze erano brevi ma lontane davvero, e si percorrevano a fatica. Com’è stato avere il primo figlio, poi il secondo, e perderlo, poi la terza. Svegliarsi un giorno e sentire quella bambina di 3 anni appena dire: “Non riesco a muovere le gambe”. Cosa è stato, per te, Maria, viaggiare per l’Italia, l’Italia di quell’epoca, con una piccina che s’è beccata la poliomielite pochi giorni prima di fare il vaccino? Com’è stato lasciare a casa marito e figlio maggiore, che d’un tratto s’è trovato così, con la mamma assente, a non voler più studiare, mentre per te niente era importante come lo studio, quello studio che a te era stato negato? Com’è stato cercare i centri specialistici, assistere tua figlia durante gli interventi chirurgici, viti e ferri nel corpicino di quella creatura, e lasciare infine quella bambina in un istituto per anni, perché potesse studiare e curarsi, e vedere il suo sguardo triste quando andavate via, e non poter fare altro, e intanto lavorare, risparmiare, spaccare un soldo in quattro, costruire una casa per tutti, e andare avanti, fare del tuo meglio, preparare mostaccioli per quelle nipoti che ancora oggi, che non ci sei più (da 23 anni, tra pochi giorni), se li ricordano ancora i mostaccioli che facevi tu, nonna. Io ricordo anche le pesche sciroppate, l’estate che son stata da voi, il secchiello liscio per fare bene i castelli di sabbia, e quando ho imparato a dire la erre, e la frittata di patate, e i disegni, e le chiacchierate che ci facevamo, e le merende con pane e pomodoro, e i carciofi ripieni, e le melanzane a funghetto, quanto olio ci mettevi! E la cicerchiata da cui staccavo palline dure ricoperte di miele. Ricordo anche l’odore del tuo respiro alla fine, in ospedale, quando mi hai aspettata prima di andare. Avevo 16 anni, non capivo niente. Com’è stato accompagnare la mamma in quell’adolescenza complicata che non potevi sapere? Vederla crescere, diplomarsi, iniziare a lavorare, imparare a guidare la sua seicento rossa fiammante? Com’è stato il giorno che ti ha detto che andava, si trasferiva in Puglia, aveva trovato l’amore? Gliel’hai insegnato tu a prendersi con i denti ogni grammo di autonomia, o è proprio lei che è fatta così? E il nonno ti ha capita? Ti ha aiutata? Ti ha consolata? Ti ha fatto coraggio? Ti è stato vicino? Ti ha amata, nonna? Ti sei sentita sola? Chi ti è stato accanto? I tuoi fratelli? I tuoi genitori?
E per te, Nicoletta, com’è stato scappare con tuo cugino 9 anni più grande, fare il primo figlio a 16 anni, poi la seconda, e infine l’ultimo a 32, e lavorare al pubblico in quell’epoca in cui le donne mica lavoravano, e farlo a Taranto, in Piazza Fontana, dimmi nonna, com’è stato? Com’è stato avere tre fratelli e due sorelle, e qualcosa di misterioso che ha impresso l’inquietudine a fondo nell’anima di tutti? Com’era tuo padre, nonna? Com’era tua madre? Com’era tenere segreti sepolti così bene, che nessuno li ha mai saputi davvero? Com’è stato vivere di sodalizi e conflitti, e cucinare pesce ogni domenica, e trascorrere ogni giorno della settimana seduta dietro al bancone del bar del Tribunale a vendere marche da bollo agli avvocati, nonna? A me sembravi una regina, lì. Con le tue unghie limate, arrotondate, smaltate, perlate, chiare, una sola passata. Le vene in rilievo, due anelli, sempre quelli, alle dita. Avrei voluto chiederti molte più pizzette, e più merendine. Tu però nonna non sorridevi mai, e oggi anche papà sorride poco, sai. “La vecchiarella nostra” mi chiamavi tu. Dicevi che ero una bambina saggia. Quanto mi manca Taranto, nonna, tu non lo sai. Andarci costa tantissimo, ormai. Ah che darei per avere un monolocale in quel palazzo in Via Crispi. Accetterei pure il quarto piano senza ascensore, lo giuro. Ma anche la casa nella città vecchia, vicino alla torre con l’orologio, dove mi dicono sia nato papà. Che darei nonna, tu non lo sai.
E sì, certo, so che nel frattempo lì fuori è accaduto di tutto. La Pasqua, la Pasquetta, la morte del Papa soprattutto, il 25 aprile siate sobri, mi raccomando. Sì, lo so. Ma io qui ho avuto le mie indagini da fare, le foto da cercare, la febbriciattola di Bianca da gestire, Sergio e Angelo che sono venuti a trovarci da Taranto in giornata, portandomi un pezzo di Puglia in Abruzzo, e poi il compleanno del mio papà che ha compiuto 67 anni (49 + 18 direbbe lui) e per festeggiare abbiamo cercato tutti i referti degli ultimi trent’anni, per le prossime visite che abbiamo a Milano a maggio.
Lo so che è successo il mondo fuori.
Ma il mondo mi succede anche dentro, ogni volta che gli concedo l’agio di accadere. Ogni volta che esco dal turbinio della routine milanese. Ogni volta che posso ascoltare. Posso osservare. Posso sentire.
Speravo di allungarmi in Puglia per qualche giorno. Lo desideravo con tutta me stessa. Gli eventi però non volgono al meglio. Rinuncerò. Tratterrò il mio fabbisogno fisico di Puglia ancora per un po’. Confiderò in agosto. Mi farò bastare quei giorni, sperando di riuscire a prendermeli. Mi accontenterò. Che cazzo devo fare. Non mi lamento. Non mi voglio lamentare.
Sono piena d’amore anche se a volte fa male.
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Ciao Stella, questo articolo è una stretta al cuore... Ho dovuto insieme ai miei genitori "ripulire" la casa dei miei nonni di recente e, pensando anche a come stanno invecchiando anche loro, ho concluso che non sono pronta per tutto questo e che mi sento ancora la bambina di 35 anni fa................
Ho gli occhi lucidi 🥹🥺