Recentemente un’amica mi ha raccontato d’essere in quella fase della vita in cui ti interroghi in merito all’eventualità di procreare per una seconda volta, oppure no. In cui provi a capire se vuoi o non vuoi, se te la senti, se non te la senti, se poi te ne penti, se ce la fai, se te lo puoi permettere, cosa ne pensa il partner, cosa ne pensa primogenit* (perché va detto che a una certa pure loro iniziano a esprimersi in proposito) e anche, non da meno, cosa dice il tuo corpo quando si aggira attorno alla boa dei 40.
Nel mentre, va da sé, chiunque ti sottolinea che ci vorrebbe proprio un fratellino, o una sorellina, che non vuoi mica lasciarlo solo quel figlio, o quella figlia, non vuoi mica farlo crescere COME UN FIGLIO UNICO. Chiunque ti dice che devi farglielo, questo regalo (come se mettere al mondo una creatura equivalesse a scegliere un puzzle al Toys); che se non lo fai sei egoista (considerato l’impatto ambientale che hanno i figli, forse dovremmo rivedere questo punto); che dove si mangia in tre, si mangia anche in quattro e anche in cinque (come se crescere figli nella società contemporanea, nella nostra porzione di mondo, consistesse esclusivamente nell'approvvigionamento alimentare); che voi giovani di oggi non avete più voglia di fare sacrifici, volete sempre andare a mangiare fuori, ai nostri tempi invece… (della miopia e dell’assurdità di queste argomentazioni parleremo in altra sede, come pure della suggestione in virtù della quale noi saremmo “giovani”, considerato che siamo genitori di 40 e 50 anni e vi ringrazio tanto ma no, mio padre era giovane, che quando sono nata aveva 28 anni, non io che a novembre ne faccio 40, o il padre di mia figlia che in autunno ne compie 49).
Però, poiché la mia amica, come la maggior parte delle persone coetanee che conosco, ha un fratello, qualche giorno fa ha chiesto la mia opinione in merito. Me l’ha chiesta non in quanto mamma di una treennemmezzo (devo essere accurata, perché se dico a Bianca che ha 3 anni mi corregge, ha inventato anche un gesto con le dita per indicare, secondo lei, il tre e mezzo). No, la mia amica me l’ha chiesto perché io sono una figlia unica del secolo scorso. E me l’ha chiesto perché sa quanti giudizi, pregiudizi, luoghi comuni e ignoranze ci siano su questo tema.
La prima cosa che ci ho tenuto a dirle, per rassicurarla almeno in parte, è che suo figlio non sarà un’eccezione, perché nella loro generazione ci saranno molti più figli unici, rispetto a quanti ce ne fossero nella nostra. Vuoi perché è cambiato il tessuto sociale, vuoi perché l’incompatibilità tra vita professionale e familiare è a quanto pare irriducibile, vuoi perché ci siamo riprodotte tutte in tarda età, siamo l’esercito delle primipare attempate (del resto dieci anni fa non avevamo un lavoro stabile, non avevamo una relazione stabile, non avevamo nulla di stabile perché siamo il prodotto dell’esiziale precarizzazione dell’umano) e tutto questo implica che oggi la nostra vita graviti non solo attorno alla cura dei piccoli ma pure a quella degli anziani (per chi ha la fortuna di averli ancora). Vuoi perché siamo già spossati e prosciugati così, in termini di risorse, tempo e soldi… chi ce la fa?
Certo, ci sono coppie che continuano a multi-riprodursi, nella mia cerchia sono un buon numero. E io rappresento un’anomalia rispetto al sottoinsieme di cui faccio parte, quello delle figlie uniche divenute adulte, perché le altre madri figlie uniche che conosco, hanno fatto in modo di risparmiare alla prole la medesima esperienza familiare. Hanno, in altri termini, fatto due o più figl*.
Però, lo sappiamo, ciascuno ha la propria storia, il proprio corpo, il proprio bagaglio d’origine, il proprio reddito, il proprio carico di cura, la propria resistenza, e mai come su questo tema è impossibile tracciare delle traiettorie universali. Su questo terreno non possiamo concederci alcuna licenza per generalizzare, a meno che non vogliamo risultare imbecilli agli occhi di chi legge o alle orecchie di chi ascolta.
Ciononostante, proviamo a rispondere alla domanda: “Com’è essere figli unici? Cos’è che ci rende differenti dai figli multipli? Di cosa è fatto questo marchio profondo che si imprime nell’identità di ciascuno, dal giorno in cui nasce a quello in cui muore?”
1. Siamo più soli
Sì, essere figl* unic* implica l’esposizione a un maggior grado di solitudine. Questo non vale solo nell’infanzia, ma è una condizione che ti accompagna per tutta la vita. Non vuol dire necessariamente che siamo dei disadattati con problemi sociali, incapaci di sviluppare legami profondi nel corso della vita, per carità; men che meno significa che sia esclusivamente un male, perché imparare a stare da soli può essere una skill, nella vita può capitare di ritrovarsi soli, o di sentirsi soli pur senza esserlo sul piano formale, e saper maneggiare quella condizione, saperla vivere facendo ricorso all’autonomia sviluppata da sempre, può essere utile; inoltre dalla solitudine possono nascere anche abilità secondarie, come la fantasia, la creatività, l’inventiva (a scapito di altre, prettamente sociali, ma ora ci arriviamo). D’altra parte, il mondo è pieno di fratelli e sorelle che non si parlano più, che si detestano persino, quindi fare più figli non implica necessariamente che si ameranno e andranno d’accordo per tutta la vita. Fare più figli non è un antidoto infallibile alla solitudine. Semplicemente, è un’opportunità in più, non di poco conto. Con la speranza che vada bene. Che funzioni.
2. Siamo bambini grandi
Poiché il sistema nel quale nasciamo e cresciamo ha meno poli affettivi, e siamo gli unici “cuccioli” del branco, che non è un branco ma un nucleo, nel migliore dei casi composto da due genitori, i legami sono molto stretti e condizionanti (anche quando inconsapevolmente disfunzionali) e in una certa misura sono più “paritetici”. Il figlio unico è spesso trattato come un bambino grande. Lo so, non ve ne capacitate, perché l’immaginario ci vuole bamboccioni e immaturi per definizione, e invece il figlio unico è esposto di più all’adultità dei genitori, con tutto ciò che essa comporta; non ha altri filtri, non ha altri poli presso i quali esercitare il suo diritto all’infanzia, cercare rifugio, fare sponda nella fanciullezza. Non ha fratelli con cui giocare e distrarsi mentre in casa i genitori discutono, affrontano questioni complesse, vivono stati d’animo e umori più o meno problematici.
3. Siamo votati all’esclusiva
Quel che è certo è che la condizione di unicità ti induce a sviluppare una vocazione profonda per l’esclusiva e l’esclusiva significa principalmente due cose: gelosia e senso del possesso rispetto a oggetti, persone, rituali. Tu nasci e cresci in un contesto in cui tutto è tuo, e non mi riferisco solo ai giocattoli o ai pennarelli, ma anche agli spazi, al tempo, alle attenzioni degli adulti (poche o troppe che siano, sono comunque solo per te). Poi, man mano che cresci, nelle normali tappe evolutive che ti inseriscono nella società e in sistemi via via più complessi, ti accorgi che l’esclusiva non esiste, non è reale. Ti accorgi che non tutto ti spetta di diritto, che non è quello il naturale ordine del mondo. Rendersene conto può essere doloroso e può richiedere anni di vita. È un apprendimento tardivo, rispetto a chi ha fratelli e sorelle che rubano giochi o vestiti, occupano spazi, competono per scegliere cosa si guarda in televisione o per chi ha diritto di occupare la linea telefonica di casa (questo, va da sé, valeva ai nostri tempi), o per chi gode delle preferenze (che non dovrebbero esserci ma, da quanto mi dicono, sovente ci sono) degli adulti. Non parliamo neppure poi di cosa implichi sul piano dei rapporti interpersonali questa vocazione all’esclusiva. Cosa comporti nelle amicizie. Cosa comporti nella vita sessuo-affettiva. Lascio alla vostra immaginazione.
4. Il dramma della condivisione
Ciò che non è esclusivo, è evidentemente condiviso. Un principio nobile, che per figl* unic* può rappresentare l’apocalisse. Impariamo a condividere eh, sia chiaro, ma ci mettiamo tempo e molta, moltissima fatica. Non penso che per chi ha fratelli e sorelle condividere sia un processo del tutto indolore ma, forse, è come per le lingue straniere: quanto prima le apprendi, tanto meglio riesci a esercitarle. Le pratichi da quando esisti. Diventano quasi “naturali”. Questo fa una differenza, sul lungo periodo, per nulla banale (un’altra volta vi racconto l’immane fatica che faccio a condividere gli spazi, avendo sempre avuto uno spazio MIO, che fosse la mia camera, la mia macchina, la mia casa, da quando - soprattutto - questo spazio MIO non ce l’ho più. Esclusivamente mio, intendo).
5. Lo spirito di squadra
Nonostante la buona volontà e le migliori intenzioni dei genitori, potrebbe essere più difficile per i figli unici sviluppare un sano spirito di squadra. Non dico che questo tratto sia trasversale, ma per me e per le persone che conosco, sprovviste di fratelli e sorelle, è un elemento ricorrente e, di certo, può rappresentare una complicazione se fai uno sport di squadra, ma non solo (io ho sofferto moltissimo la pallavolo, per esempio, preferendo di gran lunga il nuoto e lo sci, entrambe attività individuali, in cui il risultato dipendeva da me soltanto; oppure ho amato il tennis, dove si gioca in due, ma uno contro l’altro, dunque agonismo e competizione c’erano, capacità di collaborazione per il raggiungimento di uno scopo comune, meno). Le situazioni esistenziali nelle quali saper giocare in squadra è importante, sono molteplici e non si limitano al mondo sportivo, ovviamente. Bisogna far squadra nei team di lavoro, per esempio. Bisogna far squadra nelle famiglie. Bisogna far squadra in coppia, per chi di una coppia intenda - per ragioni varie ed eventuali - essere membro.
6. Compromesso
A rendere ostico lo spirito di squadra per figl* unic* è non solo la tendenza a fare da sé e per sé, cosa che peraltro è anche faticosa, ha un costo maggiore e una resa peggiore, perché essere più persone vuol dire anche collaborare, potersi aiutare, spartire i pesi, compensare le rispettive lacune e spostare più in là i limiti collettivi. Cose che, chiunque goda di un sufficiente grado di intelligenza, può comprendere senza fatica (pur magari non essendo un campione nell’esecuzione pratica della teoria). A rendere complessa la squadra, l’organismo sociale composto da un numero di unità superiore all’uno, è il fatto che questo imponga dei compromessi. Tutti i sistemi sociali complessi, dalla coppia alle democrazie evolute, richiedono compromessi. I compromessi si ottengono tramite la negoziazione e i negoziati, per definizione, implicano la rinuncia ad alcune cose, in favore di altre. Non c’è scampo. L’unico modo per non scendere mai a compromessi su nulla, per fare solo e sempre ciò che si ritiene essere la cosa migliore per sé, riferita a sé soltanto, è essere soli. Non single, badate, intendo proprio soli. Isolati. Alienati. Amputati della capacità di convivere con altri esseri umani e di condividere le esperienze, belle e brutte. Soli, senza partner. Soli, senza amici. Soli, senza parenti. Soli, senza nessuna relazione umana, con tutto ciò che questa condizione comporta: in alcuni casi la sofferenza psichica, in altri un infondato delirio di superiorità e una grandiosa incapacità di riconoscere l’altrui esistenza e rispettarne la diversità. Io e il mio amico Peppone, ruggente figlio unico, abbiamo discusso per anni sui locali in cui incontrarci, o sulla spiaggia in cui andare al mare, perché non eravamo mai d’accordo ed entrambi sostenevamo che si facesse sempre come voleva l’altro… e ne eravamo convinti! Questo magari perché in qualche occasione avevamo dovuto cedere e accettare un compromesso (e, uh, quanto ci era costato). “Si fa sempre come dici tu”. “Si va sempre dove vuoi tu”. “Tu imponi ciò che vuoi”. “O si fa come dici tu, o niente!”. Poi io a un certo punto ho mollato e ho accolto la Peppecrazia in maniera acritica, così abbiamo smesso di litigare e ci siamo goduti quel pugno di anni in cui entrambi abbiamo vissuto qui.
7. Le attenzioni
Essere figl* unic*, come accennavamo sopra, significa anche e soprattutto essere i soli destinatari delle attenzioni genitoriali. Le attenzioni genitoriali sono una questione complicata: la loro totale assenza è certamente un problema. D’altra parte, anche quando presenti, possono essere scarse e approssimative, oppure eccessive e asfissianti (e talvolta questo valore varia in base a quanto atteso o desiderato sia stato quel figl*). Possono essere centrate sulla prole, certo, ma quanto spesso la prole diventa un asset personale? Quante volte i figli assorbono le proiezioni, i valori (e i disvalori) dei genitori, quante volte si fanno carico delle aspettative, delle paure, delle ansie, dei pregiudizi che respirano in casa? Quanti genitori esercitano il loro potere manipolatorio sui figli? Quanti genitori trattano la progenie come una propaggine di sé, approvando e disapprovando, persino da remoto, tutto ciò che i figli, persino adulti, fanno? Quanti genitori adottano un registro seduttivo con la prole? Se fai così, se mi assomigli, mi piaci. Se sei bravo, ti amo. Se eccelli, ti amo. Se aderisci all’idea che ho di te, ti amo. Altrimenti, se differisci, se ti discosti, se ti ribelli, se ti autodetermini davvero, no. Ecco, i figli unici, queste attenzioni, che possono essere buone oppure no, sane oppure tossiche, le assorbono in toto. Al 100%. Non le spartiscono con nessun altro. Non dico che in presenza di fratelli sarebbero al 50%, perché il fifty fifty si fa solo al termine di certi date deprimenti, e non siamo bilance ma persone, però in presenza di fratelli e sorelle sarebbe comunque una percentuale più bassa.
8. Sei speciale o non sei speciale?
Difficilmente i figl* unic* si concederanno il lusso di deludere i propri genitori, di essere fallimentari, di ripudiare il sistema da cui provengono (salvo che non sia davvero nocivo). Possono certamente esperire una forma di conflittualità in alcune fasi della vita, spesso verso uno dei due genitori, oppure per entrambi ma in momenti differenti, ed è una conflittualità necessaria, fondamentale per la crescita, che solitamente insorge durante l’adolescenza, quel periodo della vita in cui più che in qualunque altro il riconoscimento più ambito è quello dei propri simili, dei coetanei, non quello di mamma e/o papà. Tuttavia, in linea di massima, essi sanno di essere i soli. Non possono concedersi il privilegio di diventare la pecora nera del gregge filiale, perché il gregge è composto soltanto da loro. Per questo, i figl* unic* nascono e crescono sentendosi a vario titolo speciali e passano parte della loro vita adulta a constatare la sconvolgente e amara realtà, ovvero che poi tanto speciali non sono. Quando crescono, finalmente, se sono fortunati, se scelgono persone relativamente sane con cui accompagnarsi, scoprono che si può essere amati e amabili anche essendo normali, imperfetti, difettosi, perfino banali.
9. I soldi
Che i figli unici siano viziati è una frase che mi sento ripetere da che ho memoria di me. Mai nessuno che sia stato in grado di dire qualcosa di più intelligente, meno ovvio, meno dozzinale di questo. Dunque vediamo: sul piano simbolico, delle attenzioni, sì, certo, ne riceviamo di più, come testé detto. Tuttavia, io che sono cresciuta con due genitori lavoratori, non sono così sicura di aver ricevuto complessivamente più attenzioni, più affetto, più cura di quanta ne abbiano ricevuta i miei amici che avevano la mamma a casa, che li aiutava a fare i compiti e infornava le torte e faceva con loro i lavoretti. Io che d’estate rimanevo a casa da sola dagli 8 anni in poi, non sono sicura di aver avuto più tempo da trascorrere con i miei di chi era - per esempio - figlio d’insegnante. Non sono sicura che chi è cresciuto con una mamma in perfetta salute (mia madre ha contratto la poliomielite quando aveva 3 anni, l’età che oggi ha mia figlia) abbia avuto meno attenzioni di me (perlomeno nei periodi in cui la salute di mia madre ha inevitabilmente spostato gli equilibri e modificato le priorità familiari). Ricordo, del resto, molto nitidamente, diverse amiche - che pure avevano sorelle e fratelli - che materialmente disponevano di più benefit di me. Più borse. Più vestiti. Più vacanze. Persone “più viziate di me”, nonostante non fossero figl* unic*. Semplicemente perché erano di una classe sociale più alta della mia. Certo, a differenza di molti amici, non ho percepito l’esigenza di procurarmi del denaro. Non ho mai avanzato pretese assurde e non ho dovuto lavorare d’estate quand’ero minorenne per concedermi il “di più”. Oggi, che sono una precaria disorganica, con un estratto conto in bilico tra santi e falsi dei, ne pago le conseguenze. Ma questa è un’altra storia.
10. L’invecchiamento dei genitori
Poi si giunge al temibile e terribile punto: quando sei figl* unic* l’invecchiamento dei genitori, il deterioramento implacabile che il tempo agisce sul loro corpo e sulle loro funzioni, le malattie, le complicazioni, l’assistenza, è tutto su di te. Ed è uno dei carichi più onerosi, più dolenti, più usuranti che si possano portare nella vita. Chiunque ci sia passato, lo sa. E un giorno, salvo che il Fato non faccia le bizze e non decida di tendere tranelli che invertono il naturale corso degli eventi, i genitori non ci saranno più e della tua famiglia d’origine, non resterai che tu. Ecco, in quei casi, forse, sapere che sul Globo, da qualche parte, esiste un fratello, una sorella, qualcuno che ti conosce da quando sei venuto al mondo, che sa perfettamente di quale pasta tu sia fatto, perché è la stessa di cui è fatto lui (o lei), perché condividete la stessa radice e questo mai cambierà, forse, può procurare un sollievo intimo che noi figl* unic* non conosceremo mai. Detto questo, mia madre, che pure un fratello ce l’ha, quando mia nonna s’è ammalata, si è svangata tutto da sola, come se fosse figlia unica, e questo dipende dal fatto che le famiglie raramente sono strutture simmetriche, prive di squilibri e iniquità. Anche questo, chiunque conosca la realtà delle famiglie, lo sa.
E a proposito di famiglia, per peggiorare la situazione, ho segnalato alla mia amica che oggi i nostri figl* unic* sono spogliati anche di quelle trame familiari nelle quali noi siamo cresciuti. Noi che, almeno, avevamo attorno zii, zie, cugini, cugine, nonni. Persone che creavano un universo affettivo di riferimento, una rete che poteva essere gabbia ma pure supporto. Oggi, nelle nostre vite metropolitane, fuorisede, a distanza, tutto questo non c’è.
Quindi, che famo?
Costruiamo quella che il mio amico Giovanni chiama “famiglia logica”.
Creiamo legami di prossimità. Reti di solidarietà. Una specie di parentela urbana, non basata sul sangue. La famiglia queer che diceva Murgia, però con bambini inclusi.
Questa è la risposta che da figlia unica del secolo scorso, e madre di figlia unica di questo millennio, mi sono data.
Figlia unica per 6 anni, quindi coccolata - e tutto ciò che ne comporta - da: genitori, zii (3) nonni (2); all'epoca vivevamo tutti nella stessa casa e l'unica bimba ero io, neanche un* cugininett* in vista.
Poi, è arrivata mia sorella. Un dramma. Durato anni.
E ancora oggi, che di anni ne sono passati parecchi, faccio fatica a condividere le mie cose, specialmente se non mi viene chiesto il permesso di usarle.
Detto ciò, quindi - e forse - da figl* maggiori - con una differenza d'età "importante" rispetto a* secondoginit*, non ce lo si toglie lo stesso un pezzo del "fardello del figlio unico".
Che bella riflessione, grazie. Essendo figlia unica di una madre a sua volta figlia unica (e persino nipote di una figlia unica), ho deciso di interrompere questa “tradizione” e avere due figlie molto vicine di età. L’idea che, se fosse successo qualcosa a noi, mia figlia sarebbe rimasta completamente sola mi terrorizzava. Chissà quante delle mie paure inconsce hanno influenzato questa scelta. In ogni caso, credo che alla nostra generazione di millennial l’essere figli unici sia stato fatto pesare particolarmente, con stereotipi come viziati, egoisti, introversi e così via.