Pochi giorni fa ho compiuto 39 anni, che vuol dire quasi 40. Devo ammettere che quasi 40 è molto meglio di quasi 30, perlomeno dal punto di vista dell’ansia da prestazione e della pressione sociale. Certo, ci sono in ballo questioni più serie, responsabilità di un altro livello, rispetto al passato. In un certo senso anche amarezze più profonde, con meno vie d’uscita.
Però, c’è un però.
C’è che a quasi 40 anni, bene o male, sai chi sei. Un po’ di giochi sono fatti, e quando i giochi sono almeno un po’ fatti, quando hai scelto in quale disciplina ti diletti, qualcosa sei, di più concreto, di più definito. E i momenti in cui questa cosa ti sembra claustrofobica e opprimente coincidono generalmente con la sindrome premestruale. Per il resto del tempo, quasi 40 non è così male. Non dico che quasi 40 sia in assoluto un’età migliore di quasi 30, perché queste posizioni sono sempre in ultima analisi sciocche, tuttavia mi rendo conto - con non poca sorpresa - che ci sono diverse cose che non rimpiango di dieci anni fa. Per esempio:
Non rimpiango il costante bisogno di validazione esterna, di cui ero persino inconsapevole e ciò rendeva ancora più sorda e più furente la ricerca di approvazione.
Non rimpiango le catene di tante, troppe aspettative, mie e altrui, e una forte ansia derivata dalla convinzione che le stessi disattendendo tutte.
Non rimpiango la presunzione, l’arroganza e neppure la tendenza acuta a riferire tutto a me stessa. Non che sia passata, perché in fondo trovo anche giusto parametrare la mia vita, i miei obiettivi e le mie risorse su di me, se non lo faccio io chi lo fa? Ma ho imparato nell’ultimo decennio a riconoscere l’alterità. Che non è poco.
Non rimpiango la confusione totale tra essere e fare, dunque ero ciò che facevo: il lavoro, le vacanze, le conoscenze, i successi, i riconoscimenti. E se queste cose non andavano bene, non andavo bene io.
Non rimpiango la convinzione che tutto dipendesse da me, in senso stretto. Soprattutto i demeriti, che diventavano colpe. Non esistevano, ai tempi, dettagli come il contesto, il bagaglio personale, la provenienza, la classe sociale, l’origine culturale. Cioè sì, c’erano, ma ero totalmente ubriaca della retorica che se vuoi puoi, che se t’impegni ce la fai, e rendermi conto che non ce la facevo, non in tutto, non benissimo, mi procurava un discreto carico di frustrazione.
Non rimpiango il desiderio costante di essere ammirata, alimentato dall’equivoco originale tra ammirazione e amore, che sono cose distinte ma io che ne sapevo.
Non rimpiango il marchio di fabbrica dei figli unici degli anni Novanta, ossia l’esigenza di essere speciale, che era alla base di una certa competizione, a volte esplicita, altre volte latente. Vincere. Essere la migliore. Era piuttosto importante, per me. Significava troppo ed è stato doloroso ma liberatorio accettare che nella vita si possa essere ben capaci di fare una cosa, anche senza essere i migliori in quella cosa.
Non rimpiango neppure l’ingenuità legittima, dati i privilegi del mio vissuto, che i problemi fossero soprattutto quelli sentimentali, e che sarei morta sola divorata dai gatti, e che tutto ciò che in fondo desideravo fosse una relazione normale, ma passionale; solida ma elettrizzante; con una bella casa, una grande libreria, dei vinili, un giradischi, un anello al dito perché non sono una rivoluzionaria, una fine intellettuale, una vera radicale. Sono il prodotto della piccola borghesia meridionale del finire del secolo scorso, che volete da me! Ciò che desideravo era non ritrovarmi più da sola nel weekend e poter rispondere insieme a qualcuno alla fatidica domanda “Cosa facciamo in ferie?”
Stolta com’ero, mica immaginavo che non avrei avuto i soldi per farle le ferie, in certi momenti. O che avrei comunque dovuto pensarci io, perché l’uomo decisionista che ti conduce, che ti porta come un pacco in giro, purtroppo è fuori produzione. E altre amenità di questo tenore.
Non rimpiango l’incapacità assoluta di gestire l’ansia che alcuni tratti della mia storia mi procuravano. La pretesa di risolvere l’irrisolvibile, l’apprensione paralizzante rispetto alla salute dei miei cari, l’illusione di poter cambiare il destino altrui e di salvare le persone, men che meno l’assenza di umiltà rispetto ai limiti profondi che la condizione umana ci impone.
Non rimpiango la fottuta paura che avevo del futuro, del dolore, della malattia, della perdita, del non fare e del non diventare, e la necessità di arroccarsi nel passato, di aggrapparsi ai ricordi per non lasciare che il presente si compisse, che gli eventi accadessero. Ebbene, surprise surprise, gli eventi si compiono comunque. Quelli belli e quelli di merda.
Certo, c’era anche un corpo migliore, un viso infinitamente più giovane, una salute messa meglio, molte più possibilità aperte, una leggerezza di cui non ho mai goduto abbastanza. C’era un’ambizione che ho perso e che un po’ mi manca. C’era la libertà di disporre in assoluta libertà del mio tempo e del mio corpo senza sensi di colpa. C’era la facoltà di stabilire le mie priorità in autonomia, perché è vero che nella mia vita c’era della solitudine, ma c’era pure una importante dose di indipendenza. E non è mica detto che avere un partner, o della prole, significhi non sentirsi comunque, talvolta, profondamente sole. Anzi.
E per carità non è che tutto ciò che c’era a 30 anni sia svanito senza lasciare tracce, nel bene e nel male. Però, oggi, tra le zavorre emotive e i pesi del passato, tra le responsabilità che mi ancorano al suolo e talvolta mi schiacciano, c’è una voce che sento dentro di me e che coltivo, con cura.
Questa vocetta stridula, mi dice: goditela. Goditi tutto.
Goditi ogni cosa di tua figlia, ogni parola strana che dice (“amo fatto”, “non te lo dicio”, “loro non ponno”), anche se la dimenticherai, anche se non stai segnando tutto su un diario, anche se non stai costruendo un archivio della sua personale evoluzione, tu godi di ogni cosa che accade, mentre accade. Ogni progresso cui hai il privilegio di assistere. Ogni coccola, ogni risata, ogni pianto disperato che riesci ancora a consolare, ogni capriccio che sai gestire, ogni momento di assoluta dolcezza, ogni stupore purissimo, goditelo cazzo, e non avvelenarti per mille cose inutili.
Goditi i tuoi genitori, anche se il loro invecchiamento ti affligge e la loro salute ti cruccia, tu goditeli perché ci sono, perché tra le loro braccia trovi ancora sporadiche tracce della bambina che eri, e la finitudine è qualcosa che più cresci, più sai.
Goditi la tua casa, che non è la casa perfetta, non è al mare, non ha il terrazzo e neppure lo studio, ma è la casa che abiti con la tua famiglia, ed è bella, ed è calda, ed è il luogo in cui la vostra quotidianità si compie, in cui si costruisce l’infanzia della vostra bambina.
Goditi i viaggi in macchina verso gli affetti che andate a trovare, anche se fate sempre partenze deficienti e vi ritrovate incolonnati in autostrada.
Goditi il corpo che hai, quando sta bene. Il corpo che ti permette di muoverti, di prendere in braccio tua figlia, di vivere, di respirare. E porco il demonio smetti di fumare!
Goditi il sole in autunno, e il fresco in estate, e le domeniche al parco, i compleanni, le feste dell’asilo, la spesa da fare, gli amici da vedere, i luoghi in cui tornare e quelli ancora da scoprire.
Goditi la stanchezza a fine giornata, la vita piena, l’assenza di tempo persino.
Goditi gli eventi in cui vai a parlare, anche se non hai mai voglia di farlo ma poi, quando ti ritrovi con un microfono in mano a pontificare, ricordi sempre quanto ti piace.
Goditi i libri che puoi leggere.
Goditi la musica che puoi ascoltare.
Goditi i film che puoi vedere.
Goditi le notti in cui puoi dormire e le mattine in cui ti svegli e c’è il sole.
Goditi pure l’aspetto che hai, oggi lo ripudi e tra 10 anni, se un accidente non t’accoppa prima, ti guarderai pensando: “Com’ero bella, quanto sono stata scema a non accorgemene in tempo!”
Goditi tutto.
Goditi la voglia che hai ancora di fare e di sapere.
Goditi la capacità che hai di parlare.
Goditi la voce che sai usare.
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Immensa come sempre!Tanti auguri Stella del nostro cuore!