“Ci sono altre patologie? Il signore ha bisogno di essere accompagnato?” ci chiede la donna, dietro il vetro, nell’accettazione del Pronto Soccorso Oftalmico Fatebenefratelli in Piazzale Principessa Clotilde a Milano. È il 28 dicembre. Una bella giornata di sole, con l’aria cristallina e le montagne all’orizzonte.
Guardo mio padre, che non risponde. Succede da un po’ che, se siamo insieme, sia io a parlare per lui. Non so se si tratti di una mia ingerenza. Non so se lui preferisca demandare. Succede anche che la gente chieda a me, invece di chiedere a lui. E a volte succede che se risponde lui, non capiscano bene ciò che dice e glielo facciano ripetere.
In questo caso, però, io non so cosa dire.
“In che senso?” chiedo.
“Se ci sono altre patologie posso darvi un codice verde, altrimenti devo darvi il bianco e c’è un po’ di sovraffollamento” mi spiega, riferendosi alle circa ottanta persone in attesa.
Guardo di nuovo mio padre.
“Non so, tipo… demenza?” chiede la donna dell’accettazione.
Ipotizza. Dice una cosa a caso.
Succede senza tanto clamore, lì per lì.
Succede che mi spacco a metà.
Non mi frantumo. Non vado in mille pezzi. Semplicemente mi spezzo in due parti, in un prima e in un dopo.
Da un lato c’è la figlia coccolata, la bambina viziata, l’adultescente mai cresciuta, l’enfant prodige, la cocca intelligente di un papà brillante, lucido, preciso, mente matematica e razionale, riferimento di tutta la stirpe per faccende burocratiche, smart con il computer da sempre, appassionato di De André, e Dalla, e Bennato, e Baglioni, e De Gregori, e coi vinili dei Pink Floyd, e le freddure che da bambina mi facevano tanto ridere, coi giochi di parole, tipo la ciambella e la ciambrutta, il fermaglio e il fermacipolla; quel papà amante della fantascienza e dei film horror, e del mare sempre, a ogni ora, ogni giorno, soprattutto d’estate, soprattutto al tramonto (quello lo ama ancora, il mare intendo; quello e l’Inter); quel papà delle nuotate al largo e delle immersioni giù a prendere un pugnetto di sabbia per risalire a galla e dimostrare di essere arrivati fino al fondo. Quello dei silenzi, che erano meno prolungati e insondabili. Quello dell’ascolto, e delle poche parole azzeccate. Quello delle partite a Tressette a cui non giochiamo più (anche perché da quando c’è Bianca, se tiriamo fuori le carte, vuole giocarci lei, che però è troppo piccola per partire coi fondamentali, tipo asso piglia tutto e rubamazzetto…in compenso fa il nonno, gioca a nascondino con lei, o con il palloncino… del resto è lei la bambina).
Dall’altro ci sono io, oggi, con la ricrescita dei capelli bianchi in testa, e una matassa inestricabile di sentimenti che mi bucano il corpo. La paura. La preoccupazione. La rabbia. La tristezza. La consapevolezza della cura che si è preso di me, e di mia madre con la sua salute complicata, e del meglio che ha fatto, il meglio che ha potuto, come tutte le persone che campano in buona fede. La responsabilità filiale che sento. Persino, da qualche tempo, new entry nel paniere delle emozioni che mi annientano, la tenerezza. L’ho trovata solo la scorsa estate, la tenerezza, di fronte ai suoi movimenti rigidi e lenti, di fronte alle sue confusioni, e incertezze, e dimenticanze. La forza di accettare l’inizio di quel processo che si narra accada a chi assiste all’invecchiamento dei propri genitori. Quel “tornare bambini”, che detta così sembra una cosa dolce e invece è feroce, perché i bambini non sono autosufficienti, sono bisognosi, impegnativi, cocciuti, non vogliono prendere le medicine, né andare dal dottore (salvo che il dottore non elargisca adesivi e gadget), fanno i capricci (anche se capriccio non si può dire) e tu ti attrezzi per gestire queste manifestazioni quando provengono da una treenne (e già lì non è semplice), ma non sei strutturata per gestirle in un genitore. Non è un passaggio di consegne indolore, è uno switch brutale, quello in cui realizzi che chi s’è preso cura di te - se si è preso cura di te - a un certo punto smette di farlo, lo fa meno, in modo molto diverso, e di quella cura ha bisogno, anche se non la chiede. Strugge accorgersi che il punto di riferimento è confuso, che l’architrave traballa, che la terra trema sotto ai piedi, e la roccia si sfalda, e il cielo si chiude sopra la testa, e tutto sembra più cupo finché un raggio di sole non squarcia le nubi e ripristina le ombre e le luci. Per carità, non parliamo mai di questo tema, se non di rado, con pochissime e intimissime persone, perché questo tema duole, è un nervo scoperto, basta un soffio per farlo saltare, non è sexy, cosa vuoi dire del resto, è la vita signori, invecchiare è il peccato originale, la colpa suprema e inevitabile, il vergognoso demerito che ci ricorda quanto siamo deperibili e deteriorabili. Non ne parliamo mai, o ne parliamo male, come della malattia, eppure succede. Tutto succede. Succede di tutto.
Mio padre tace. Credo sia spaventato. Gli occhi, i suoi occhi fragili dalla nascita, da svariati decenni malati di glaucoma, sono preda di una violenta congiuntivite bilaterale. Ha la vista appannata. Non ci vede, nemmeno dall’occhio buono. Indossa il cappello che io e mia madre lo “obblighiamo” a indossare. In viso ha l’espressione smarrita con cui devo fare i conti da tempo. Ha mal di schiena. Il giorno precedente gli ho messo un cerotto Thermacare che avevo comprato per me stessa, in una di quelle occasioni in cui ti rendi conto che anche tu stai invecchiando (continuate pure tutti a farvi le punturine in faccia, tanto la schiena non mente, la schiena conosce la verità anagrafica).
“Non abbiamo una diagnosi perché non riusciamo a convincerlo a fare una visita” dico infine alla donna dietro il vetro.
“Questa è la risposta più sincera che posso darle”.
La signora dice che mi capisce, che pure sua sorella impazzisce con sua madre per la stessa ragione, che però lei deve motivare il codice verde, e mi consegna un foglio con il nostro numero, dove c’è scritto che il codice d’accesso è bianco.
Entriamo nella sala d’attesa. Troviamo a fatica due sedie vicine. Togliamo i giubbotti perché la temperatura interna è pressoché tropicale. Gli pulisco di nuovo gli occhi. Ho portato tutto. I tondini d’ovatta. Le fialette con la soluzione fisiologica, di quando Bianca era piccola. Sono le 15.30 circa.
“Vedi, avessimo almeno avuto una diagnosi, saremmo passati prima!” gli dico, tra il serio e il faceto.
“Resta qui, vado a fumare una siga e torno” aggiungo (nel 2025 smetterò di fumare, forse).
Fuori dal Pronto Soccorso, nel periodo natalizio, c’è un’umanità stramba. Io, com’è ormai norma, sono uscita senza portare l’accendino (era successo lo stesso il 25 dicembre, quando al Pronto Soccorso ci ero andata per Bianca). Chiedo a un uomo di etnia altra, che è lì a fumare, se abbia da accendere. Ormai a Milano fumiamo solo io e gli uomini di etnia altra. Se esci senza accendino sei spacciato. Puoi camminare per chilometri senza incrociare un singolo fumatore. Tutti con quelle robe elettroniche che producono un odore simile al letame. Si sentiva l’urgenza di una legge per vietare il fumo all’aria aperta. Problema cocente, urgenza sociale e sanitaria. Mica le polveri sottili. Mica la gentrificazione scriteriata. Mica gli scioperi dei mezzi pubblici o l’insufficienza dei taxi. Scusate, è benaltrismo, il fumatore è un essere abietto e indifendibile, okay.
Un altro uomo mi si avvicina. “Signora mi offri un caffé?”. Io lo guardo in un modo, ma in un modo che non saprei spiegare, però lui capisce, nonostante gli occhiali da sole, che non è aria, che sono esausta, che non è il caso, che non mi deve cagare il cazzo. Si allontana da solo. Impugno il telefono e scrivo nella chat di famiglia che abbiamo 80 persone davanti.
“Ci vediamo stanotte” digito.
Sono irritata, gli avevo detto il giorno prima di chiamare la dottoressa di base, che gli occhi non guariscono da soli, ormai lo so, e non l’ha fatto, ha aspettato che la situazione peggiorasse. Sono irritata, e stanca, ma faccio del mio meglio per non darlo a vedere.
“Mi dispiace” aveva detto lui, mentre eravamo in coda in accettazione.
“Non fa niente, l’importante è che ti visitino, così ci danno una terapia” gli avevo risposto, con tutta la dolcezza di cui ero stata capace, dandogli una pacca sul giaccone, come avrebbe fatto Cannavacciuolo, ma con intensità legittimamente minore.
Rientro. Lo raggiungo. Mi dice che siamo codice verde. Io penso “Madò”, penso che sia confuso, penso che non abbia capito. Invece ha ragione lui. Per un mistero misterioso, un prodigio fatto dalla signora in accettazione, che deve avermi sentita, tipo I feel you sis, sul monitor il nostro colore è verde. Gli pulisco di nuovo gli occhi. Lo faccio con mia figlia, lo faccio con mio padre. Sono una pulitrice provetta di occhi cacati. Peccato non poterlo inserire nel curriculum.
“Hai visto cos’è successo a Bruce Willis?” gli chiedo, all’improvviso.
Lui tentenna qualche secondo e poi annuisce.
“Vedi, se succede a Bruce, può succedere a tutti” concludo, prima di ingaggiare un’operazione amarcord, rimembrando insieme il culto sfrenato che i miei cugini, Bibi e Franceschino e Francesco Grande (dove “Grande” non è il cognome, ma il modo per distinguerlo dall’omonimo cugino, che è Franceschino ancora oggi che di anni ne ha 45), avevano per Bruce Willis, e le proiezioni domestiche la domenica pomeriggio, con le videocassette noleggiate di Die Hard, e degli altri capolavori interpretati dal suddetto.
Mio padre ha sorriso.
Alla fine ce la siamo cavata in un paio d’ore, miracolosamente. Siamo passati in farmacia a fare shopping di collirio, antibiotico, garze sterili, e siamo tornati con i mezzi, facendo due passi in centro per raggiungere la metro in Moscova. Al cambio della linea gli ho pulito di nuovo gli occhi. Siamo rientrati a casa in tempo per la partita dell’Inter che era alle 18, con la prescrizione di una tac massiccio facciale da fare.
Il giorno dopo sono ripartiti e il 1° gennaio siamo arrivati noi in Abruzzo, per rivedere il mare, per respirare aria diversa, perché a Bianca mancavano i giochi di Vasto e perché io ogni tanto, almeno un paio di volte all’anno, ho bisogno di tornare a casa, qualunque cosa “casa” significhi. Per fortuna, gli occhi di mio padre stavano meglio e la terapia che gli avevano dato era stata efficace.
La cosa positiva di tutta questa storia è che si è convinto a cercare un buon oculista per curare il glaucoma (a proposito, grazie a tutte le persone che su Instagram mi hanno scritto, consigliandomi medici e centri, siete tante e devo ancora rispondervi). Sul resto, però, è riluttante: “Abbiamo già un altro intervento in programma” ha detto, riferendosi alla protesi d’anca di mia madre, che deve sostituire quella impiantata 16 anni fa.
“Lo so, papà, ma la vita succede tutta insieme, le cose non capitano una per volta, non possiamo continuare ad aspettare”.
Allora ne approfitto e gli dico che sono anni che gli scrivo mail che non gli mando. Anni che non riesco a dirgli ciò che penso e che provo e che mi spaventa e che negare i sintomi delle cose non fa sparire le cose, le fa peggiorare, le fa combinare, aggiungersi, moltiplicare.
Gli dico che non è normale che ogni notte io debba fare Doctor Google, basandomi sui sintomi che vedo, per provare a capire cose di cui non so un cazzo, usando parole chiave come “declino cognitivo”, come “depressione”, come “depressione non curata”, come “parkinson”, come “invecchiamento precoce”, come “demenza”, come “covid impatto neurologico”. Lanciandomi in fanta-diagnosi. Dice che sono apprensiva. Vero. Forse lo sarei meno, se lui fosse si curasse di più. Disturbo del sonno. Terapia del linguaggio. Attività fisica. Dieta corretta. Stile di vita sano. Studi dimostrano questo. Studi dimostrano quello. Farmaci utilizzati per. Benefici. Effetti collaterali. Ma questo in effetti mica gli succede. Questo invece sì. Ma allora forse potrebbe trattarsi di quello. E fare tutto questo spesso piangendo.
Gli dico che basterebbe andare da chi ha - come minimo - una laurea in tali materie. Gli dico che la malattia succede, mica è da stronzi, mica è da sfigati. E se invece non succede, se è tutto fisiologico, tanto meglio. Gli dico che per certe cose abbiamo una conclamata ereditarietà. Gli dico che se non si cura lui, mi ammalo io.
“Non fare questi ricatti” risponde.
Il problema è che non è un ricatto. È una previsione.
Prendersi cura è un atto d’amore. Curarsi, pure. Finché c’è chi si preoccupa per te, vuol dire che non sei solo e questa è, al tempo stesso, una responsabilità e un sollievo.
Non lo so come andranno le cose. Tutto ciò che so, al 10 di gennaio, è che ho una lunga lista di propositi sanitari per tutti.
So anche che non si può cambiare il destino di nessuno, neppure dei propri genitori. So che nessuno sceglie in quale famiglia nascere. So che ciascuno di noi ha la sua storia. Io metto le scarpe a mia madre e lo zaino a mio padre. Non è giusto e non è sbagliato. È la mia storia.
So che vedere i propri genitori come persone, uomini e donne, oggi anziani, un tempo adulti, prima ancora giovani, persino bambini, immaginare ciò che li ha resi felici e ciò che li ha stupiti e ciò che li ha feriti, è tosto, per certi aspetti atroce, talvolta salvifico.
So che i desideri restano indietro, ma ci sono, e sono bagliori di speranza che servono a respirare, a frenare l’ansia. Tornare a fare sport. Viaggiare. Un corso di teatro, mi piacerebbe tanto. Tornare in Puglia, asap. Lavorare. Guadagnare il giusto per vivere con più serenità. Sentirmi ogni tanto, in qualche modo, in qualche altrove, più leggera di così. Ridere più spesso. Cantare ad alta voce. Ritrovare tracce occasionali di vitale spensieratezza.
Accettare. Lasciar andare. Curare. Apprezzare. Amare. Essere amata.
…rivedere la mia psic, la prossima settimana, finalmente, dopo un mese.
Ciao 2025, piacere d’incontrarti.
Arrivo in ritardo, perdonami. Sii gentile, se puoi.
Se ritieni.
Ti capisco e ti sono vicina. Vedere i propri genitori invecchiare ed ammalarsi è doloroso. Soprattutto per noi adultescenti che oltre ai capelli bianchi abbiamo molto poco in comune con gli adulti che loro erano alla nostra età. Soprattutto per noi che siamo cresciute con padri che erano rocce, vederli sgretolare piano piano è straziante. ❤️
Non sei sola. Io sono stata la prima nel mio gruppetto di amiche storiche a vedere il declino di un genitore: mio padre con l'Alzheimer, malattia iniziata proprio con piccoli segnali preoccupanti, malattia rifiutata inizialmente da mio padre e da tutta la famiglia e durata dodici anni dal momento della diagnosi fino alla sua morte. Purtroppo la vecchiaia è arrivata a bussare ad ogni porta e, dopo che io ho aperto il discorso purtroppo, ad ognuna delle mie amiche è toccata la sua sorte. Ognuna ora sta dietro, molto preoccupata e stanca (avendo pure un marito e due/tre figli ciascuna) ai problemi di salute dei propri genitori. Arrivare alla diagnosi per tuo padre può davvero aiutarvi. Non tanto per una cura che in alcuni casi non c'è, ma soprattutto per prepararsi ad un futuro meno incerto, ma senza dubbio più duro del presente. C'è però, come dici tu, la tenerezza a darci da immenso supporto nel prendersi cura di chi ci ha dato la vita. La tenerezza ed empatia verso un genitore ci può regalare momenti di profondo ed intenso affetto, gioia sincera nello stare insieme nonostante tutto, complicità e momenti di ritorno all'infanzia con ruoli ribaltati. Ti auguro che la diagnosi non sia troppo severa con voi. E ti auguro di trovare quella giusta consapevolezza nell'affrontare le cose senza ulteriore dramma al dramma e con un pizzico leggerezza che fa bene a tutti. Ridere se potete! Noi ridevamo insieme al bar dell'Alzheimer e a mio padre ha fatto bene ridere con noi ed altre persone al bar, e sentirsi ancora parte del mondo sociale